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On Assia Djebar
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Le Blanc de l’Algérie, Albin Michel, 1996

Bianco d'Algeria, Il Saggiatore, 1998

 

Oreste Pivetta « Il grido di morte di Algeri » Escono due libri della scrittrice Assia Djebar,

L’unità, Milano, 24 Novembre 1998:

Assia Djebar è una signora che vive tra la Francia e gli Stati Uniti. Dovremmo chiamarla Fatima-Zohra Imalhayène. Assia Djebar è un nome d’arte, per mascherarsi di fronte ai genitori e di fronte al suo primo romanzo d’amore, scritto appena ventenne, La soif, la sete. O qualche cosa di più di un nome d’arte: djebar in arabo classico significa “l’intransigente”. E Assia o Essia in dialetto vuol dire “colei che consola”. Assia Djebar ha visto in faccia la storia del suo paese, storia prima di una liberazione dal colonialismo, di un contrastato cammino verso la democrazia, di scontri e liti tra gli stessi uomini che hanno costruito l’algeria moderna, di violenza ormai quotidiana... Assia Djebar nata nel 1936 a Cherchell, a ovest di Algeri, fu la prima donna algerina ammessa all’Ecole Normale Superieure a Sèvres, collaborò all’organo del Fln, che era diretto da Frantz Fanon, Ad Algeri, dopo l’indipendenza, insegnò storia moderna all’universtià. E poi ha scritto molti libri, ha diretto alcuni film (uno dei quali premiato dai critici a Venezia). I suoi libri sono arrivati di recente in Italia: Donne d’Algeri nei loro appartamenti nel 1988, Lontano da Medina nel 1993, L’amore, la guerra nel 1995. Da leggere tutti accanto alla lunga e bella intervista che una sociologa tedesca, che insegna all’Università della Calabria, studiosa della condizione famminile e della mafia, Renata Siebert le ha dedicato: Andare ancora, al cuore delle ferite (La Tartaruga). Gil ultimi libri arrivati in Italia sono Nel cuore della notte algerina (Giunti) e Bianco d’Algerina (il Saggiatore), il primo una raccolta di racconti, il secondo una raccolta di racconti, il secondo una raccolta di cronache. In un caso e nell’altro sono storie di morte e di lutto, sintesi di quel conflitto integralista che insanguina le strade e le case algerine.

 

Assia Djebar, perché il bianco?

 

“Quando ho pensato al bianco non ho voluto soltanto rappresentare una liturgia di morte. Forse mi ha colpito la memoria dei veli delle donne algerine o dei muri delle case della Medina. Ma anche altri significati di quel colore mi hanno guidata. Ho riflettuto sull’uso che ne hanno fatto i pittori astratti di inizio secolo. Kandinsky sostenva che il bianco è ciò che più si avvicina al silenzio assoluto...”.

 

In “Bianco d’Algerina” racconta la fine cruenta di tre intellettuali ed evoca molte altre morti. Dire la “fine” è forse poco. La ricerca dell’ultimo istante, dell’ultimo pensiero, delle’ultima pagina scritta. Richiamandosi  alla sua professione di storica ha ricostruito l’ultimo giorno di Mahfoud Boucebci, psichiatra e scrittore, Mohammed Boukhobza, sociologo e scrittore, Abdelkader Alloula, autore di teatro, cognato di Assia, tutti uccisi tra il 1999 l’anno successivo...

 

“Il bianco è come se tu attraverso il silenzio ti rifugiassi in una sorta di sogno. Il mio sogno è stato il dialogo con i morti, il dialogo intimo, necessario per avvertire il desiderio di salvaguardarne la memoria. La disgrazia di tre amici mi ha obbligato alla parola. A quel punto, che nel libro sta all’incirca a pagina quaranta, ho cominciato prima a ricostruire e quindi a raccontare, per capire qualche cosa di più. A forza di dirla, anche la violenza si banalizza, diventa una teoria di numeri...”.

 

            Perché il terrorismo si è scelto comme obiettivo gli intellettuali?

 

“Ci sono ragioni che risalgono alla lotta di liberazione, a conflitti rimasti e mai risolti, questioni che ogni algerino ha accantonato. Se c’è una responsabilità collettiva sta nella censura degli ultimi trent’anni, nel rinunciare a dare voce a quel passato. Perché gli intellettuali? Perché al movimento integralista appaiono come quelli che minano la cultura integralista, perché ad esempio parlano, scrivono, insegnano in francese. Ma anche questa è una posizione antistorica. Io stessa non conosco l’arabo classico. Conosco una dei tanti dialetti che si parlano, ma sono cresciuta in francese. La lingua diventa un discrimine, un’occasione di sospetto, ma è inutile cercare di riportare alla luce ciò che non esiste. Alle origini c’è la democrazia tradita dalla retorica socialista dei “liberatori”. L’ex presidente Boumedienne recitava ore e ore dei suoi discorsi in arabo che nessuno capiva. Intanto i dirigenti mandavano i loro figli a scuola in Francia. Sarebbe stato più utile per loro. I fanatici del Fis hanno strumentalizzato la distanza tra il popolo e le élites politiche e il popolo li ha votati perché pensava di metter fine alla sua subalternità. L’integralismo non vincerà, ma non finirà questo stato di larvata guerra civile, che può essere vantaggioso per chi sta nelle istituzioni e da questo stato di violenza ricava dei benefici, per non dire dei traffici”.